ESSERE PARTE ATTIVA, PROTAGONISTI E NON OSPITI DEL NOSTRO TEMPO!

domenica 5 luglio 2009

Mettiamoci in gioco per Cirò Marina


Partecipare, prendere parte alle vicende della vita quotidiana, sentirsi membro attivo e non "ospite" del nostro tempo: e cosa c'è di più ordinario, di più "normale" della nostra città? In realtà il luogo che ci ospita, magari fin dalla nascita, non lo riconosciamo veramente "nostro", anzi non lo conosciamo affatto. Ci trascorriamo gran parte della nostra vita, ma molto spesso non facciamo nulla per sentirlo nostro, per prendere confidenza, per appropriarci degli spazi, non solo materiali, ma soprattutto sociali. Rinunciamo a dire la nostra, ad occupare il nostro posto nelle mille situazioni che lo richiedono. Insomma, siamo cittadini a metà: latitanti! Forse perché non siamo sufficientemente convinti che valga la pena impegnare la propria esistenza (o forse non ce ne rendiamo conto) per la nostra città.

“C’era una volta uno studente che aveva tanti sogni, sperava di fare chissà quali conquiste e scoperte, aveva tante aspirazioni, ma la sua città non gli permetteva di fare nulla del genere, la sua città non gli bastava. Allora chiude tutti i suoi sogni in un cassetto e decide di lasciare la sua città in cerca di un altro luogo migliore. Ma la nuova città è molto, anzi troppo diversa dalla sua vecchia. Così come inizialmente sperava di vedere una stella cadente (che rappresenta i sogni che si avverano), così alla fine, nel luogo che pensava potesse esaudirle tutti i desideri, aspetta ancora di vedere la stella cadente che le faccia recuperare la sua città” (Confronta con Gerardina Trovato “Non ho più la mia città” - 1993).

Quanti studenti delle nostre scuole pensano che il luogo dove si trovano non sia adatto a loro, che le loro città non offrono nulla rispetto ad altre città vicine o lontane!
Molti studenti, terminati gli studi, spesso vanno a studiare fuori e poi rimangono fagocitati dal giro della grande città frenetica, dimenticando “il cassetto con i sogni” che tanto gelosamente avevano custodito quando erano nella città natia!! Molti preferiscono rimanere lontani da casa perché il luogo d’origine non offre nulla o è poco stimolante per la propria attività!
Ma perché non vedere la propria città, con i suoi limiti e problemi, come un luogo da riscoprire, luogo da vivere (nel vero senso della parola!) e anche luogo da migliorare, luogo per il quale impegnarsi, mettersi anche al servizio? Stare, abitare la propria città. È questo quello che significa abitarla da cittadini, con partecipazione, “politicamente”.
Dedicarsi con cuore e dedizione alle cose quotidiane, quelle piene solo di tanta normalità, fa sì che la città insieme a noi cresca e migliori. La consapevolezza di appartenere ad una comunità di persone che condividono, oltre che il tempo, anche il luogo nel quale si svolgono gli incontri, le relazioni interpersonali, non nasce spontaneamente ed in 5 minuti. “Occorre che qualcuno pensi a passarci il testimone. Occorre che qualcuno, aiutandoci a costruire la nostra identità, ci spieghi cosa significa essere veramente cittadini. Ogni città ha i suoi pregi ed i suoi difetti, i suoi lati oscuri e le sue meraviglie, magari da far conoscere a tutto il mondo.
Tutti ci lamentiamo che Cirò Marina è sporca, chiediamo l'intervento delle televisioni, scriviamo lettere ai giornali, ce la prendiamo con i politici (che avranno sicuramente le loro pecche) ma quand'è che ci accorgiamo che abiamo anche noi, piccoli e grandi le nostre responsabilità? Ma soprattutto mi domando quand'è che mettiamo in atto il senso civico che ci manca e cominciamo a rispettarla questa nostra città, evitando di buttare carte e cartacce per strada, iniziando a rispettare le regole per la raccolta dei rifiuti ingombranti invece di depositare televisori, materassi e chi piu' ne ha piu' ne metta in ogni angolo della città. Alla guida delle nostre auto quand'è che impariamo a rispettare il codice della strada? Ci sarebbe davvero molto da dire. Cominciamo nel nostro piccolo, tiriamo fuori l'orgoglio dell'appartenenza ad una città grande com'è stata Cirò Marina nella storia. Mettiamoci tutti in gioco.E' forse il caso di smetterla di starsene rintanati nelle proprie casette aspettando che qualcosa cambi. Svegliamoci se vogliamo un futuro.

Antonio Pace

Cirò Doc: chi propone di imbastardirlo con il Cabernet è un nemico di questa denominazione


La “sindrome di Montalcino”, in altre parole la coda di paglia di chi temendo di non essere completamente in linea con le regole (il dettato del disciplinare) di una denominazione si affretta non a rimettersi in regola, ma a cambiare, in corsa, i regolamenti, colpisce ancora.
Dopo il tentativo abortito nella patria del Brunello, dopo Montepulciano, l’area del Primitivo di Manduria, ci tocca scendere ancora più a Sud per trovare manifestazione di una scelta che o è miope, immotivata, fuori tempo massimo, oppure è in malafede. E serve, come ho scritto sopra, a cercare di porre rimedio, prima che sia troppo tardi, a situazioni irregolari, molto border line rispetto alle leggi vigenti.
In Calabria, nella terra della denominazione simbolo regionale, di una delle più storiche aree a vocazione vitivinicola di questa terra bellissima a me cara, qualche “furbetto del vigneto e della cantina” sta pensando, quando non ce ne sarebbe nessuna ragione logica, né viticola, né tecnica, né enologia, né commerciale, di meticciare, peggio, di imbastardire il vino Cirò Rosso Doc, il cui disciplinare vigente prevede l’utilizzo del Gaglioppo nella misura minima del 95% e del Greco Bianco o Trebbiano per il restante 5%.
Non pensano, i furbetti, di modificare il disciplinare eliminando quella quota del cinque per cento di uve bianche che, in fondo, se usata non fa male al vino, bensì, “nella proposta di modifica avanzata dal Consorzio di Tutela del Cirò e Melissa si prevede la possibilità di utilizzare oltre al Gaglioppo tutte le varietà a bacca rossa autorizzate dalla Regione Calabria nella misura massima del 20%. Tra queste varietà sono presenti vitigni internazionali quali Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot che nulla hanno a che vedere con la tradizione vitivinicola del Cirò”.
Varietà che sono presenti sul territorio, ma che non vengono utilizzate di certo, almeno ufficialmente, per produrre dei Cirò, bensì delle Igt, la Val di Neto ad esempio, dove vini che prevedono un uso di piccole parti di queste varietà in sintonia con quelle locali, hanno trovato una loro identità parallela all’identità principe del Cirò e si sono messe in luce.
Cosa succede di fronte a questa scelta allucinante del Consorzio? Succede che qualcuno, giustamente, s’inca…vola, che qualcuno decide di non stare zitto e prende posizione e invita altri a non stare zitti e a farsi sentire, ad esprimere pubblicamente l’indignazione per una scelta che non va certo a favore dei viticoltori e dei produttori dell’area cirotana, che rispecchia gli interessi di chi non ha le idee chiare su quale deva essere il futuro di questa denominazione principe calabrese.
Nascono così un appello, sacrosanto, In difesa dell’identità del vino Cirò, che si serve di una pagina Web – vedete qui - dove è possibile aderire e aggiungere la propria firma, e un blog, dallo stesso nome, dove si dà conto di quel che l’appello provoca, le adesioni, ad esempio quella del Sindaco di Cirò, quella dei viticoltori membri di una cooperativa di 150 soci, del professor Mario Fregoni, i siti e blog che linkano la petizione e poi le ragioni, fortissime, di chi si oppone a questa ipotizzata assurda modifica del disciplinare ricordando che “l’utilizzo di varietà internazionali (in quantità rilevanti come proposto nella modifica) porta ad uno svilimento dell’identità territoriale e all’omologazione del prodotto” e chiedendo perché ” un consumatore del nord Italia o estero dovrebbe ricercare il Cirò se le sue caratteristiche sono simili a mille altri vini?
Perchè dobbiamo de-cirotizzare il Cirò? Perchè dobbiamo parificare la DOC Cirò alle IGT presenti sul territorio? Perché centinaia di produttori devono rinunciare alla loro identità di Cirotani?”.
I firmatari dell’appello richiamano un’elementare evidenza, ovvero che “riguardando nei vigneti del cirotano si riscontra che il Gaglioppo è sempre stato predominante, tanto che in altre zone della Calabria veniva denominato anche come “Cirotana”. In un passato non tanto lontano poi, erano presenti in piccole quantità altri vitigni (Greco nero, Malvasia nera, ‘Mparinata, Pedilongo, ecc.) che davano al vino maggiore complessità organolettica e miglioravano la tonalità del colore”.
Se non bastasse, “recenti ricerche scientifiche hanno evidenziato le potenzialità enologiche del vastissimo patrimonio ampelografico calabrese, a dimostrazione che il ricorso alle varietà internazionali non è una scelta obbligata”.
I firmatari dell’appello chiedono pertanto che “in un’eventuale modifica del disciplinare del Cirò Rosso Doc “vengano autorizzate oltre al Gaglioppo esclusivamente varietà autoctone calabresi in quantità massima del cinque per cento”.
Su questa assurda vicenda del Cirò imbastardito da altre uve e sull’appello al quale ho ovviamente dato, come ha fatto il collega di Napoli Luciano Pignataro (leggete qui) la mia adesione, ho pensato di sentire l’azienda che maggiormente, in Italia e nel mondo, è il simbolo del Cirò, ovvero la casa vinicola dei fratelli Librandi.
Nicodemo Librandi preferisce non commentare per non mettere altra benzina sul fuoco, ma fa notare semplicemente due cose. In primis il fatto, clamoroso, che la sua azienda abbia scelto di non far parte del Consorzio, semplicemente perché ha idee diverse rispetto a quelle della maggior parte dei produttori sul futuro della denominazione. In secondo luogo che Librandi, pur producendo vini, di indubbio successo, come il Gravello, che vede il Gaglioppo coesistere armoniosamente con una quota di Cabernet Sauvignon, ed il Rosato Val di Neto Igt Terre Lontane, dove accanto al Gaglioppo c’è anche un 30% di Cabernet franc, oppure il Bianco Val di Neto Igt Critone, mix di uve Chardonnay e Sauvignon, l’azienda, come dimostra il grandissimo lavoro di ricerca e valorizzazione fatto negli anni in collaborazione con i massimi esperti di viticoltura e concretizzato in un esemplare volume come Gaglioppo e i suoi fratelli, individua nei vitigni autoctoni calabresi il futuro ed il nucleo fondante dell’azienda.
Ed è persuaso che, nonostante le difficoltà di coltivazione e di perfetta maturazione che il Gaglioppo presenta, essendo un vitigno caratteriale e “tosto”, ma di grande personalità, il Cirò debba continuare ad essere prodotto unicamente con questa uva locale, senza i contributi, ufficializzati (o sotterranei, aggiungo io) di altre uve alloctone. Più chiaro di così! Vogliamo pertanto dire, chiaramente e fuori dai denti, perché tutti capiscano, che chi si ripromette, non in una Igt ma in una Doc identitaria e di territorio come il Cirò, di unire altre uve estranee al Gaglioppo o propone di imbastardire il Cirò con il Cabernet è un nemico dichiarato di questa denominazione?
Fare entrare, viticoltori e produttori cirotani, i Cabernet, i Merlot e chissà che altro di internazionale nelle mura del vostro Cirò e vi ritroverete puntualmente, proprio come accadde con il mitico cavallo introdotto dai greci per espugnare la città di Troia, la vostra storica denominazione ridotta alla mercé di chi non le vuole certo bene e non ne vuole assolutamente fare gli interessi: meditate cirotani, meditate…
Magari anche sugli “ecomostri” (vedi foto sotto) che sono stati costruiti, senza che nessuno dicesse niente, nel cuore della vostra denominazione e che ne deturpano la selvaggia, inimitabile bellezza…


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